La frutta

Fragola favetta

Fragola favetta

La favetta è una particolare tipologia di fragola unica al mondo: la favetta (o favette), di origine francese. La storia di questa cultivar affonda agli anni ‘50, quando un’azienda francese produttrice di sementi propose agli agricoltori del territorio bonificato dalle Paludi Pontine e avvantaggiato da un singolare microclima di impiantare questa varietà di fragole. L’azienda francese presto si rese conto che la piantina attecchiva in modo ottimale solo nell’Agro Pontino e non nel resto del mondo, quindi decise di non rinnovare il brevetto. Così, da quel momento la conservazione del seme della favette avviene tramite gli agricoltori del territorio che mandano a fioritura le piantine, diventando nel tempo un prodotto tipico e specifico proprio di questo territorio.

La zona di produzione si estende per circa 100 ettari nei comuni di Sabaudia, San Felice Circeo, Terracina, Sonnino, Monte San Biagio, Pontinia, Priverno, Fondi. Essa appartiene alla famiglia delle fragole unifere, quella che fiorisce una sola volta nel corso dell’anno e garantisce un unico raccolto, che avviene tra metà marzo e metà giugno. La forma della fragola favetta è tondeggiante, molto piccola (appena più grande di quelle di bosco), il sapore è più dolce delle altre fragole profumo è intenso mentre il colore è rosso brillante, è ricca di Vitamina C, oltre che di calcio, ferro e magnesio.

Per le sue caratteristiche la fragola può contrastare il colesterolo e i dolori reumatici; la presenza di acido salicilico la rende un potente diuretico e depurativo. Le fragole contengono inoltre lo xilitolo, sostanza che previene la formazione della placca dentale e dell’alito cattivo, e sono dei potentissimi antiossidanti. Ottimale è il suo consumo fresco, ma non mancano ormai sperimentazioni nei primi piatti accompagnando il gambero rosso, il filetto di tonno o di spada.

Kiwi

Kiwi

Il kiwi nella zona centro-nord della provincia di Latina è arrivato negli anni ‘70, e in pochi anni questo frutto di origine cinese e perfezionato dai neozelandesi agli inizi del Novecento è diventato un’autentica eccellenza, fino a raggiungere il marchio di Kiwi Latina IGP. Prima che fossero coltivate le piante nelle campagne di San Felice Circeo il kiwi in Italia non era mai stato piantato; poi, nel 1973 ecco che la coltivazione cominciò nelle campagne di Borgo Flora, frazione di Cisterna di Latina. Il Kiwi Latina IGP è il frutto ottenuto dell’Actinidia deliciosa varietà Hayward, la varietà di kiwi più coltivata e consumata al mondo. Pochi lo sanno ma questo frutto, chiamato originariamente uva spina cinese e poi melonetta, prende il nome dall’animale simbolo della Nuova Zelanda, appunto il kiwi. È un arbusto rampicante, raggiunge anche i 9 metri d’altezza, ma la pianta ha natura dioica, cioè esistono piante maschili e piante femminili differenti tra loro che devono convivere in nello stesso spazio la produttività. La tipicità del Kiwi Latina IGP deriva dalla combinazione di fattori quali il clima, temperato-umido privo quasi del tutto di gelate, più le caratteristiche del terreno sabbioso e ricco di minerali di origine vulcanica.

Il primo raccolto si ottiene al quinto anno di vita del vegetale, tra la fine di ottobre e la prima decade di novembre, un raccolto estremamente produttivo, poiché da ogni pianta si riescono a ottenere 800/1000 frutti. Nell’arco di pochi anni, la coltivazione del kiwi si estese in tutta la provincia pontina, finché nel 2004 i Kiwi Latina furono insigniti del marchio IGP in quanto prodotto d’eccellenza con caratteristiche non replicabili all’infuori di questa specifica zona geografica, tanto che oggi l’Italia contende proprio alla Nuova Zelanda il primato della produzione. La zona di produzione del Kiwi Latina IGP comprende 24 comuni nelle provincie di Roma e Latina (Sabaudia, Latina, Pontinia, Priverno, Sezze, Cori, Sermoneta, Cisterna di Latina, Aprilia). In tempi recenti accanto alla cultivar Hayward ha attecchito il kiwi giallo, cultivar Gold. Il kiwi giallo ha un gusto più dolce e non presenta le note acidule del fratello verde, la polpa è quindi gialla e ha una buccia liscia, è più ricco di vitamina C. Infatti, mentre il verde ha una concentrazione di vitamina C del 50% più alta rispetto alla media delle arance, il giallo arriva anche al 160% in più. Rispetto agli altri principi nutritivi: la vitamina B9 (cioè l’acido folico) è più presente nel verde, la quantità di fibre e di potassio è maggiore nel giallo. La forma del kiwi è cilindrica-ellissoidale a buccia marroncina, presenta una leggera peluria e mostra un incavo all’attacco con il picciolo, la polpa è verde chiaro con al centro una porzione bianca e morbida, la columella, punteggiata dai piccoli semini neri, il sapore presenta una sapidità tipica, dolce-acidula gradevole che si raggiunge a completa maturazione.

A proposito di maturazione, per accelerare il suo processo di maggiore gusto è consigliabile mettere il kiwi vicino ad altre tipologie di frutta. Il consumo di kiwi ha avuto negli anni una vera e propria esplosione, tant’è che oltre che la classica consumazione fresca sono nate aziende che trasformano il prodotto in eccellenti marmellate, spesso il frutto accompagna secondi piatti di carne e pesce mentre è stato sperimentato anche il risotto al kiwi. Di recente è stato prodotto anche l’aceto di kiwi e una glassa per accompagnare dessert, formaggi, contorni e secondi piatti. Il kiwi è un naturale antiossidante, alimento che possiede un alto contenuto di vitamine (C, E, B7), di fruttosio, fibre e potassio, che danno effetti benefici a chi soffre di ipertensione, di stipsi (dato l’alto contenuti d’acqua e di fibre solubili) o a chi pratica attività sportiva.

Cocomero

Cocomero

In attesa dell’Igp, il cocomero pontino ha già ottenuto il riconoscimento Pat (Protti Agroalimentari Tradizionali) e sta conquistando i mercati nord europei con le sue non comuni caratteristiche: dolcezza e fragranza. Il frutto proviene da un triangolo d’oro per l’agricoltura nazionale, nello specifico tra i comuni di Sabaudia, San Felice Circeo e Terracina, anche se poi negli anni la coltivazione si è ampliata, abbracciando Fondi, Latina e Pontinia, per un totale di 4mila ettari, pari a un quarto di quella italiana.

La coltivazione di angurie fu introdotta nell’Agro Pontino prima della Seconda guerra mondiale, nelle campagne di San Felice Circeo, per poi allargarsi negli anni ‘60 con la varietà Sugar Baby e Crimson Sweet: la prima a buccia nera, peso tra i 3 e i 5 kg; la seconda a buccia striata, peso tra i 6 e i 12 kg, I termini cocomero e anguria vengono utilizzati indifferentemente per indicare lo stesso frutto, il Cucumis citrullus, una pianta originaria dell’Africa Tropicale (nello specifico della zona del Kalahari, ma già coltivato dagli Egizi) che appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee, la stessa della zucchina, della zucca, del melone e del cetriolo. La coltivazione del cocomero in Europa venne introdotta grazie agli Arabi, dopo il XII secolo. Nello specifico, cocomero deriva dal latino citrullus vulgaris, mentre anguria dal greco angurion, nomi dalla origine diversa ma dallo stesso significato: cetriolo. Se è vero che al Nord il frutto è chiamato anguria, al Centro-sud cocomero; la stessa Accademia della Crusca ha cercato di fare chiarezza: il nome anguria è arrivato attraverso la modifica veneziana del termine greco angóurion, ossia cetriolo, mentre il termine cocomero è da considerarsi la forma panitaliana. Resta il clima la vera ricchezza dell’agricoltura della provincia di Latina: le sue fertili pianure per via della bonifica delle Paludi, le correnti costiere e il clima mite per parecchi mesi dell’anno rendono questo territorio unico in Italia. Per promuovere l’anguria pontina di recente è stata messa in atto una campagna di promozione itinerante denominata R.e.d. (Rurale, Eccellente, Differente), al pari di una sperimentazione di ricette, che vedi il frutto impiegato in insalate, accompagnato con latticini e pesce. Nello specifico, quella pontina è la varietà Charleston, riconoscibile proprio per la forma affusolata.

Le proprietà salutari del cocomero si riconoscono in rinfrescante, dissetante, depurativa, diuretica, inoltre è ricco di sali minerali e vitamine. Infatti, il cocomero è un frutto ideale per reintegrare i sali minerali perduti con la sudorazione, contenendo un’altissima percentuale d’acqua: ben il 95 %. Un’acqua biologica, quindi purissima. È ricco di licopene, carotenoide antiossidante, quindi naturale amico di cuore e arterie. Resta un alimento ottimale nel caso di diete ipocaloriche: il suo apporto calorico è, infatti, limitato a sole 30 kcal per 100 g di polpa. Inoltre, essendo molto ricco in fibre, induce sazietà e, con l’azione degli steroli vegetali che vengono assorbiti dall’intestino al posto del colesterolo alimentare, si ottiene anche il vantaggio della diminuzione della colesterolemia.

Castagne

Castagne

La parte meridionale del Lazio è ricca di castagneti, soprattutto sui monti Lepini, in provincia di Latina. Da Sezze a Bassiano spingendosi fino a Norma, Cori e Rocca Massima, con le sue selve ricche di castagni. Che in Canada o in Giappone si chiamerebbe forest bathing, un’immersione nel verde che diventa un’esperienza detox per il corpo e la mente. La castagna è il frutto del castagno, di cui non si conoscono le sue origini, essendo largamente diffusa in tutto il mondo, da sempre rappresenta per lungo tempo una delle fonti principali per l’alimentazione e non a caso soprannominata “il cereale che cresce sull’albero”, perché molto simile al riso e al frumento dal punto di vista nutrizionale. Testimonianze ci dicono che il frutto era conosciuto in Grecia sin dall’antichità, sebbene fosse chiamato anche noce, come indicano Ippocrate e Senofonte, presto diffuso anche a Roma, come ci riportano Catone e Varrone, Plinio il Vecchio riporta che le castagne “sono più buone da mangiare se tostate; vengono anche macinate e costituiscono una sorta di surrogato del pane durante il digiuno delle donne“: infatti, già all’epoca era riconosciuto di questo frutto il valore nutritivo, lassativo e, nel caso vengano utilizzate le bucce, anche astringente.

Molte sono le varietà dei castagni, differenze dovute dai luoghi in cui si coltivano, ma anche l’insistenza nelle selve. Così, quelle lepine vengono comunemente chiamate Marrone (di buona qualità e grossezza), differenti dalle castagne. Pensate che esiste una differenza stabilita anche da un decreto Regio del 1939 che ne sancisce le diversità. Con il generico nome castagna si fa di tutta l’erba un fascio, anche per una banale necessità di semplificazione. E non è del tutto errato, visto che castagne e marroni possiamo in fondo definirli cugini. La prima è il frutto della pianta selvatica, nota anche come albero del pane. In montagna e in collina le castagne, ricche di amidi e carboidrati, un tempo erano il cibo dei poveri, di chi non si poteva permettere nemmeno un tozzo di pane. Si mangiavano bollite o arrostite, oppure se ne ricavava una farina molto nutriente. Quando l’uomo ha deciso di metterci mano e di passare dalla raccolta spontanea alla coltivazione scientifica, i castagni hanno subito un vero e proprio restyling, tra potature e innesti. È così che sono nate cultivar di ottima qualità e da queste i marroni. Se in un riccio di castagne si possono trovare fino a sette frutti, in uno di marroni ce ne stanno al massimo tre. Un’altra grande differenza riguarda la pellicola che separa il frutto dalla buccia. Quante volte è capitato, pelando una castagna, cotta o arrostita, di impazzire perché il rivestimento marroncino si infilava nelle mille cavità all’interno della polpa? Ecco, tutto questo non succede con i marroni perché non sono settati, la superficie è più liscia e omogenea e quindi la pellicola che la avvolge è molto più facile da rimuovere. Alla vista castagne e marroni si distinguono per colore e forma.

Nelle castagne è chiaro che hanno dovuto lottare per trovare ciascuna il proprio posto all’interno del riccio. Di solito, infatti, sono un po’ più piccole e schiacciate. La buccia è resistente e bruno scuro. I marroni, invece, avendo avuto vita più facile, sono un po’ più grossi, la buccia striata di un marrone un po’ più chiaro, la forma tondeggiante, che ricorda un po’ quella di un cuore. Anche al palato spiccano le differenze tra castagne e marroni. Le castagne, se raffrontate ai cugini, sono un po’ meno saporite, anche se arrostite fanno sempre la gioia di adulti e bambini. I derivati più comuni sono creme e farine. I marroni, invece, più zuccherini e croccanti, hanno la corsia preferenziale verso le pasticcerie per essere trasformati in deliziosi marron glacé, oppure verso le cucine gourmand dove vengono utilizzati per realizzare risotti inediti. Li si possono trovare facilmente anche sui banchi dei fruttivendoli, e lì allora diventa ancora più facile capire se si sta comprando una castagna o un marrone. Sarà il portafogli a dirvelo.

Ciliegia

Ciliegia

Nelle zone collinari e montane della provincia di Latina è rimasta la tradizione di coltivare il frutto delle ciliegia, più le declinazioni amarena e visciola. La ciliegia è il frutto del ciliegio (Prunus avium), propria di una pianta domesticata, ottenuta da ripetute ibridazioni della specie botanica, seppure una specie molto apprezzata resta quella più acidula, come le visciole e le amarene, che crescono nelle zone collinari e montane del territorio pontino. Il nome italiano di ciliegia deriva direttamente dal latino volgare ceresia col termine dialettale cerasa presente in diverse province. Il termine latino proviene dal greco κέρασος (kérasos), derivante dalla città di Cerasunte nel Ponto (attuale Turchia) da cui, secondo Plinio il Vecchio, furono importati a Roma nel 72 a.C. da Lucullo i primi alberi di ciliegio. Il frutto può nascere da due diverse specie botaniche: da una parte il ciliegio dolce (Prunus avium), che produce le ciliegie che siamo abituati a consumare come frutta fresca; dall’altra il ciliegio acido (Prunus cerasus), che produce amarene, visciole o marasche, genericamente definite come ciliegie acide. La ciliegia, normalmente sferica, di 0,7-2 centimetri di diametro, può assumere anche la forma a cuore o di sfera leggermente allungata. Il colore, normalmente rosso, può spaziare, a seconda della varietà, dal giallo chiaro del Graffone bianco piemontese al rosso quasi nero del Durone nero di Vignola. Anche la polpa assume colorazione e consistenza diverse a seconda della varietà e passa dal bianco al rosso nerastro nel primo caso e dal tenero al croccante nel secondo caso. Il gusto è dolce, mai stucchevole, con punte di acidulo.

Andando nello specifico, le varietà autoctone sono la Patrei nera e la Patrei rossa, individuate sui terreni di Maenza, che celebra il frutto con una sagra. Altri ecotipi della stessa varietà solo la Crognalina di Maenza, Cerasa della Madonna, Pomponia e Maggiolina. Una tradizione che affonda al ‘400, data a cui risale un dipinto rinvenuto in una chiesa di Maenza, raffigurante la Madonna e il Bambin Gesù con le ciliegie tra le mani. Altra varietà è il Magaleppo di cui la migliore è la Typica si trovano nel territorio di Lenola. A forte contenuto di acqua (quasi il 90%), le ciliegie hanno una fortissima presenza di antocianine (antiossidannti naturali), che inibiscono la cicloossigenasi, gli enzimi che rispondono a processi infiammatori segnalando la sensazione di dolore: il risultato è simile a quello dell’aspirina e dell’ibuprofene. Inoltre il suo consumo riduce i fattori di rischio associati a malattie cardiache e diabete di tipo 2 nei ratti. La raccolta delle ciliegie coincide nella maggior parte dei casi con il mese di giugno, in coincidenza del 24 giugno, festa di San Giovanni. La qualità visciola invece è più acidula, particolarmente apprezzata per la produzione di marmellate e per la produzione della ratafia, un rosolio alcolico: è una cultivar tipica delle zone collinari e montane di Sezze e Priverno. Comunemente il ciliegio aspro è conosciuto anche col nome scientifico di Prunus cerasus o ciliegio acido, appartiene alla famiglia delle Rosacee e al genere Prunus. Il frutto del ciliegio acido è simile alla ciliegia del ciliegio dolce (Prunus avium), conta tra le sue varietà l’amareno (Prunus cerasus var. amarena), la varietà più diffusa, con frutti di colore rosso chiaro e sapore amarognolo, leggermente acido; il visciolo (Prunus cerasus var. austera), chiamato nei paesi anglosassoni Morello cherry, con frutti di colore rosso intenso e sapore relativamente dolce, leggermente.

Il ciliegio acido è un albero con altezza dai 2 agli 8 metri con chioma piramidale e foglie dalla lamina di 5-8 cm e picciolo più piccolo rispetto al ciliegio. La fioritura avviene nel mese di marzo, mentre in zone montane avviene più tardi, verso aprile; i frutti sono delle drupe, rette da un peduncolo corto e sottile e hanno forma sferica di 10-15 mm; di colore rosso vivo che scurisce con la maturazione, la buccia è sottile e racchiude una polpa molto succosa di sapore acido-amarognolo che diventa dolce a maturazione completa. L’origine del ciliegio acidulo è incerta, forse proviene dall’Asia occidentale, dall’Europa dell’est o dal Medio Oriente, dalle regioni dell’Armenia e del Caucaso. L’incertezza dell’origine è dovuta al fatto che la pianta si adatta facilmente a ogni clima e non ha necessità di particolari attenzioni, crescendo spesso anche in forma selvatica adattandosi a ogni terreno. Ama il sole, ma resiste anche alle basse temperature così come sopporta anche la siccità. I frutti vengono utilizzati per la produzione di sciroppi, confetture, frutta candita o sotto spirito e liquori. Sono molto ricchi di vitamina C e B. Particolare è l’uso dei peduncoli dei frutti che vengono raccolti a piena maturazione e lasciati essiccare al sole: possiedono forti proprietà diuretiche.